Patagonia rebelde

5 07 2010

Io non so se immenso sia un aggettivo appropriato per definire un libro, ma so, che il libro di Osvaldo Bayer, Patagonia rebelde, lo è: immenso. Una storia nella storia. Il racconto di un lungo sciopero insurrezionale che si concluse nella tragedia di 1500 operai rurali fucilati negli anni ’20 dall’esercito argentino e sepolti nelle fosse comuni; e la storia dello stesso libro, perseguitato, sequestrato, un libro che ha rischiato di scomparire per sempre negli anni ’70, come avvenne per molti uomini e donne nell’Argentina della dittatura militare.

 Ma procediamo con ordine e con le presentazioni. Osvaldo Bayer è uno scrittore, sceneggiatore e giornalista argentino. Si è dedicato alla storia sociale del suo paese riscattando dall’oblio storie dimenticate di anarchici, gauchos ribelli, bandoleros e sognatori. “Senza di lui” scrisse Osvaldo Soriano “sarebbe stato più facile dimenticare”. Nel 1974 Bayer fu condannato a morte dall’Alleanza Anticomunista Argentina, la Tripla A, una banda di assassini ufficiali comandati da Lopez Rega. Gli diedero 24 ore di tempo per abbandonare il paese.

Osvaldo decise di restare e con molto coraggio misto a incoscienza invitò i militari che lo avevano condannato a morte a un dibattito pubblico presso la Facoltà di Filosofia. Non si presentò nessuno, capì che era meglio sparire. Alcuni amici anarchici lo aiutarono a nascondersi. Lo ospitò un anarchico vecchio stampo, che non comprava i giornali, non aveva la radio né la televisione, perché, diceva: “qui non entrano le notizie della borghesia”. A suo modo un grande.

 Nel febbraio 1975 Osvaldo Bayer stanco della sua vita da recluso lasciò l’Argentina e si rifugiò in Germania. Dopo pochi mesi abbandonò l’esilio tedesco illudendosi che le annunciate elezioni nel suo paese portassero più democrazia e libertà, ma tre settimane dopo il suo ritorno a Buenos Aires ci fu il golpe militare e per Osvaldo, a quel punto, l’unica scelta possibile fu quella di ritornare in Europa.

Nel frattempo in Argentina Patagonia rebelde fu censurato, le copie sequestrate e bruciate, l’editore che lo pubblicò fu costretto a rifugiarsi in Messico. Dalla Germania Bayer riuscì a recuperare una copia del manoscritto e a farla pubblicare in Europa nel 1978. Soltanto nel 1983 alla caduta della dittatura militare il libro sarà ristampato in Argentina. 

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 “Che cos’è la Patagonia del 1920? Semplificando si potrebbe dire che è una terra argentina lavorata da peones cileni e sfruttata da un gruppo ristretto di latifondisti e commercianti. Ovvero, da una parte quelli nati per obbedire e dall’altra quelli che sono diventati ricchi…”.

Da una parte la Sociedad Obrera che sindacalizza operai e lavoratori rurali; dall’altra la Liga del Comercio y la Industria, la Sociedad Rural, la Liga Patriotica Argentina: padroni, latifondisti, borghesi. Si fronteggiano in una terra immensa dagli spazi sconfinati, bellissima, sempre battuta dal vento. Qui, in Patagonia, sindacalisti anarchici, arrivati da ogni parte d’Europa: Spagna, Russia, Germania, Francia, Italia; si mettono alla guida di un’armata di operai, braccianti, servi, poveri, sfruttati in modo disumano dai grandi latifondisti.

Si battono semplicemente per affermare “che un uomo vale più di un mulo”. Vogliono qualcosa in più di quel salario miserabile che ricevono, pretendono addirittura più rispetto, e magari che in una stanza di quattro metri non possano dormire più di tre uomini. Ma i padroni sono dei duri, non cedono; allora parte un lungo sciopero, gli organizzatori a cavallo percorrono in lungo e in largo la Patagonia, vogliono unificare le lotte, superare le divisioni di mestiere e di provenienza.

 Occupano le aziende, confiscano beni: scioperano gli operai dei moli, i braccianti e i contadini, i camerieri degli alberghi. A questo punto i padroni sembrano disposti a trovare un accordo, ma alla fine non accettano le richieste degli operai e rompono le trattative. I rapporti che in seguito saranno inviati al Governatore parlano di sciopero rivoluzionario, si invoca l’intervento dell’esercito.

Il radicale Hipolito Yrigoyen, primo presidente argentino democraticamente eletto, decide di inviare l’esercito a pacificare la zona. Incomincia l’inferno. Il tenente colonnello Varela a capo del 10° reggimento di cavalleria giunto sui luoghi dello sciopero decreta la pena di morte e assume il proprio incarico come una missione di guerra. Iniziano i primi scontri, i caduti si contano tra gli operai: “Era l’11 o il 12 novembre. Le truppe si avvicinarono e aprirono un nutrito fuoco contro il nostro accampamento. Non so quanti caddero in quei momenti di confusione terribile. Chi rimase vivo fu fatto prigioniero. Quelli colpiti a morte, ma ancora vivi, furono finiti a colpi di pistola o di sciabola”. Molti scioperanti si arrendono, saranno fucilati in massa.

Il 14 gennaio 1922 il capitano di fregata Dalmiro Saenz scrive al ministro della Marina: “Gli estancieros desideravano vivamente che la rivolta fosse soffocata prima dell’inizio della tosatura, con molte fucilazioni per imporre il terrore e poi far lavorare i propri contadini con salari più bassi…”. I salari saranno ridotti di un terzo e per alcune categorie di lavoratori anche della metà.

Ma c’è ancora un episodio di questa storia crudele che bisogna raccontare. Finita la mattanza i militari vogliono divertirsi, da quando è iniziata la missione non hanno più visto una donna, “neppure una cilena”, gli ufficiali informano le gestrici dei bordelli, che preparino le ragazze. I soldati pensano ad una festa. Si sbagliano, sarà una battaglia: l’ultima, la perderanno.

A San Julian  le puttane del casino si negano e la tenutaria afferma che non può obbligarle. Il sottoufficiale e i coscritti lo prendono come un insulto all’uniforme patria…cercano di entrare nel lupanare. Ma ecco che da lì escono cinque fanciulle con scope e randelli che li affrontano al grido di “assassini!”, “schifosi!”, “con gli assassini non andiamo a letto!”. La parola “assassini” lascia i soldati di ghiaccio, e sebbene facciano l’atto di mettere mano alle armi, in realtà cominciano a retrocedere dinnanzi alla determinazione di quel gruppo di donne infuriate che lanciano bastoni.

Si può vendere il proprio corpo per vivere, ma non si può vendere la dignità, le idee, i valori. Le donne del postribolo  “La Catalana” ci lasciano un grande insegnamento. Qualcuno direbbe che sono solo delle puttane, ma l’esercito argentino ha dovuto abbassare la testa e ritirarsi di fronte alla dignità di quelle donne. Il loro gesto, come un fiore, rimarrà per sempre sulle fosse comuni dei fucilati.

Patagonia rebelde è pubblicato da elèuthera.

h.

 

 


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2 responses

18 11 2010
1 01 2011
Alberto Prunetti

Gran bella segnalazione. Ciao!

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