Democrazia “immediata”.

13 08 2014

democrazia Rousseau

Ilvo Diamanti sulla Repubblica di lunedì scrive che viviamo tempi di democrazia “immediata” dove le “mediazioni” e i “mediatori” sono più deboli. Il riferimento ai “mediatori”, non casuale visto il dibattito politico in corso e gli indirizzi presi dal governo, riguarda  i corpi intermedi della società. Tali soggetti sono messi in discussione. Emerge un nuovo modello di democrazia “personalizzata” affermata in Italia ma anche altrove in Europa, Eugenio Scalfari parla di “egemonia individuale”.  Renzi interpreta alla perfezione quel modello di “democrazia personale”. Secondo il giornalista di Repubblica non vi è alcun problema di autoritarismo, tanto meno di fascismo potenziale.

Non sono d’accordo. Il piano inclinato su cui scivola il sistema democratico italiano si fa sempre più pronunciato.

Sotto il profilo ideologico si governa seguendo l’affermazione tanto cara alla Thatchter: “there is not alternative”, non ci sono alternative. Un’asserzione che definisce la risolutezza del potere nel decidere, escludendo in partenza ipotesi diverse, definite automaticamente inammissibili. In termini di politiche economiche l’unica azione del governo riguarda la stabilizzazione del debito, seguendo le politiche monetarie e di austerità decise da Commissione Europea, FMI, BCE. Politiche sociali assenti producono l’aumento della povertà e delle disuguaglianze non compatibili con l’idea di democrazia. Nel paese manca una voce critica autorevole, le poche sono confinate in ambiti ristretti, dunque ininfluenti; giornali e televisioni sono dominati dal credo liberista. democrazia

Il governo delle larghe intese depotenzia il ruolo dell’opposizione, Lega e M5s nei governi locali dove sono presenti non prendono le distanze dall’attuale modello economico. La cessione di sovranità a organismi non elettivi: BCE, FMI, Commissione Europea, mina nelle fondamenta il sistema democratico. Ugualmente per quanto interessa la cessione di sovranità ai privati attraverso imponenti piani di privatizzazione riguardanti importanti settori industriali e di servizi, nonché scuola, sanità e previdenza. Il progressivo scollamento tra Costituzione scritta e quella applicata  spalanca le porte a quelle che impropriamente sono definite “riforme costituzionali”. L’alto livello di corruzione, ormai insostenibile. Il continuo, ossessivo, svuotamento dei diritti del lavoro con la conseguenza che il valore del lavoro è sconfessato, ignorato, producendo per questa via un deficit di democrazia. Il progressivo isolamento dei corpi intermedi della società, con un attacco frontale portato al sindacato, considerato l’unico vero soggetto antagonista di opposizione.

Basterebbe questo breve elenco di temi, tutti politici e di rilievo, ci fosse la volontà di affrontarli e approfondirli, per farci dire che non ci troviamo di fronte a un diverso tipo di “democrazia” come afferma Diamanti, ma a un modello portato inevitabilmente al superamento del sistema democratico che, prefigura (in parte è già realtà) l’esclusione dalla vita civile e politica di ampi strati della popolazione, a meno che non si consideri la piena partecipazione con la sola espressione di voto.

Democrazia “immediata”, che sia un nuovo slogan tipico della neolingua orwelliana?

 





Estate

10 08 2014

Ho visto una stella cadente. Non ho espresso il desiderio. Lo regalo a te. Sperando sia lo stesso.

Piove. Sembra che il cielo ci serbi rancore in questa strana estate e per noi abbia soltanto acqua e nuvole basse e la malinconia che s’accompagna, come una vecchia canzone di Jacques Brel: Con un cielo così basso che un canale s’è perduto / Con un cielo così basso che porta l’umiltà / Con un cielo così grigio che un canale s’è impiccato / Con un cielo così grigio da farsi perdonare.

Tutto è grigio, sta piovendo, domani pioverà. In un’estate così si possono mettere insieme solo pensieri disordinati; nemmeno un luogo, un viaggio, si riesce a immaginare: ho visto una nave che salpava e ho chiesto dove andava. Nel porto delle illusioni, mi disse quel capitano. I versi di Piero Ciampi si intonano alla perfezione.

Un’estate che non c’è non resta che inventarla in una cacofonia di parole, immagini, suoni.

paesaggio estivo Renoir

“Aveva tanto tempo davanti. Tutto il buono della vita pareva aspettarlo.”  Dino Buzzati

“Non dire ch’io perdo il senso e il tempo della mia vita se cerco nella sabbia il sole e il pianto dei mondi”. Antonia Pozzi

“Rabbrividì constatando che il tempo non passava ma che continuava a girare in giro” Gabriel Garcia Marquez

il tempo

“A salvare le mie approssimazioni è il tempo. I frammenti di cui si compone questa storia. I colori, le ombre”.  Lustig

“Se metto insieme gli incubi avuti finora nel 2014 e li faccio convergere in un’unica notte, potrei stendere uno stato di piccole dimensioni.” Giorgio Fontana

“Ogni attimo un punto dell’eternità. Tutto è piccolo, mutabile, destinato a svanire.”  Marco Aurelio

Balthus Therese

“La verità è che esiste soltanto il dolore e che fra le braccia di sconosciuti tentiamo di dimenticare che ben presto spariremo” Mathias Enard

“A volte, anziché aggrapparsi ai bordi dell’abisso, è meglio cadervi con curiosità ed eleganza.” Roberto Bolano

“Una cosa che non esiste non è mica detto che sia una stupidaggine.” Queneau

“Preferisco il nomade che fugge e insegue il vento, poiché egli diventa migliore ogni giorno servendo un signore così vasto.”  Saint Exupery

Il muro è la fine di una visione, è l’ostacolo all’orizzonte, qualsiasi orizzonte della vista e del senso.

“Alla fine fu dimostrato che il male minore non esiste e che la scelta tra due mali non lascia, in realtà, alcuna possibilità.”  Vosganian

“La mia protesta linguistica / è impotente. / Il nemico è analfabeta”  Nina Cassian

Emil Nolde

“E poi non sapevo più cosa guardare e guardai il cielo.” Italo Calvino

“La meditazione e l’acqua sono unite in matrimonio per sempre” Herman Melville

“Il mare ci definisce, ci connette, ci separa”. Philiph Hoare

“Nella civiltà senza imbarcazioni i sogni si prosciugano.” Michel Foucault

“Il vento è pieno di questo mistero e il mare anche.” Victor Hugo

Ammesso che interessi a qualcuno, nelle foto della Costa Concordia io sono quella massa azzurra intorno alla nave.

C’è più sapienza in una sola mia onda che in tutte le vostre università.





Buone Vacanze

9 08 2014

 

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Siamo annichiliti. Tutti. Da qualunque parte si guardi il mondo rimaniamo annichiliti: dalla violenza, dall’ipocrisia, dalla superficialità, dal vuoto che permea il discorso pubblico e quello privato, dai fenomeni alla Renzi Marchionne Monti, dall’impossibilità di trovare soluzioni che non siano legate ai numeri (siamo numeri), dai consumi, dall’incertezza, dalla pubblicità, dal lavoro che manca e se non manca è troppo da risultare opprimente, dalla mancanza di fantasia, dall’assenza in generale, dall’incapacità di immaginare il futuro e progettarlo, dalla bellezza messa al bando, dalla tirannia del brutto, dal narcisismo e dall’infantilismo di massa, dalla BCE l’FMI la Commissione Europea, dalla guerra, dalle bombe, dalla troika anche se l’ho già detto, dalla falsità lo ripeto, dall’economia unica cifra su cui si regola la vita le vite di tutti, dal cemento, dai centri commerciali, dalla crescita, dal progresso non si capisce quale, dalla velocità, dalla competitività, dalle cose inutili. Siamo annichiliti.
Che sia il caso di riflettere?
Buone vacanze a tutti.





Testamento

4 01 2014

CRISI: GRECIA; UE, ATENE HA SUPERATO DATA LIMITE

La Grecia, tra il 1941 e il 1944, si trova sotto l’occupazione nazifascista. In quel periodo si sviluppa una letteratura clandestina molto impegnata.

La dittatura greca, dopo il 1967, costrinse al silenzio molti intellettuali, mentre altri furono costretti all’esilio: da non dimenticare è il poeta Kriton Athanasulis. Di lui si ricorda il commosso “Testamento”, pregno dell’esperienza personale del poeta.

Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre a me.
Le stelle brilleranno uguali e uguali ti indurranno
le notti a dolce sonno.
Il mare t’empirà di sogni. Ti lascio
il mio sorriso amareggiato: fanne scialo
ma non tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S’è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco
tu guadagnando l’amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l’arma con la canna arroventata.
Non l’appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. Tanta pena
vinta nelle battaglie del mio tempo.
E ricorda. Quest’ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno, che
disperazione mi ha portato avanti e son rimasto
indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento e pioggia e grandine
hanno sepolto la mia voce. Ti lascio
la mia storia vergata con la mano
d’una qualche speranza. A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi
con le mani mozzate,
ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austera forma d’uomo,
madri vestite a bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen e di Auschwitz.
Fa’ presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d’un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici; già. I nemici dell’odio.
Ti lascio l’indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l’epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d’una città con tanti prigionieri,
dicono sempre sì, ma dentro loro mugghia
l’imprigionato no dell’uomo libero.
Anch’io sono di quelli che dicono di fuori
Il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l’occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro,
il pane è fatto pietra, l’acqua fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d’essere fiero. Sforzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. È questo che ti lascio.





Voglio la rivoluzione di Franco Arminio

21 04 2013

oratorio bizantino franco arminioIn questa grigia domenica di pioggia e tristezza vorrei proporre un breve brano di Franco Arminio, tratto da “Oratorio Bizantino”. Mi sembra possa rappresentare un antidoto al veleno che ci è stato inoculato negli ultimi mesi, la cui ultima dose letale ci è stata somministrata ieri con l’elezione del Presidente della Repubblica.

A chi ne avesse voglia consiglio di leggere il bel libro di Arminio, una raccolta di scritti civili, una ricerca antropologica (nella prefazione Franco Cassano parla di disfatta antropologica) in un piccolo paese del Sud, ma dentro una visione globale.

Nel libro c’è tanta indignazione, ma anche tanto impegno nel contrastare la deriva che riguarda una comunità, la vittoria dell’individualismo sulla collettività e il cinismo che ne consegue, riassunto in un significativo passo: “C’è sempre altro da fare quando dobbiamo fare qualcosa per gli altri”.

Sono pagine di resistenza, scritte con la consapevolezza che non ci si può arrendere mai, nemmeno di fronte alle tante sconfitte, anche se si rimane soli. Si cerca di restituire dignità alla politica, alla buona politica, che come dice Arminio: “se non è grande, non è niente” e per contare “deve contenere la vita che è slancio, coraggio, esposizione all’ignoto”.

Leggetelo.

Voglio la rivoluzione, nient’altro che la rivoluzione. La voglio da me stesso, prima ancora che dal mondo. La voglio perché la furberia dolciastra e la scalmanata indifferenza hanno preso in mano i territori della parola e anche quelli del silenzio. Chi scrive viene tollerato a patto che rimanga nel recinto. Le sue ambizioni possono essere anche altissime, ma solo se vengono esercitate in luoghi millimetrici, invisibili. I fanatici della moderazione avanzano ovunque. In politica come in letteratura.

Io sono fuori dal mondo e fuori da questa vita. Non è un merito e spero non diventi una colpa. È andata così e sono fatti miei. Dal luogo in cui parlo, con la morte che mi passa nel cuore molte volte al giorno, io sono costretto ad ambire alla rivoluzione, non ho altra scelta. E se guardo un albero, non gli chiedo soltanto di farmi ombra, e se incontro una persona non mi accontenterò delle solite cerimonie, voglio l’infinito e non mi basta neanche quello, dell’infinito voglio la radice, il luogo in cui inizia, voglio sentire come è cominciata questa infiammazione, questo delirio della materia che chiamiamo vita.

Franco Arminio – Oratorio bizantino (Ediesse)

http://www.ediesseonline.it/catalogo/carta-bianca/oratorio-bizantino

 





Intorno al Bric Castelvelli – Sentiero 701

7 04 2013

Vigneti - Santuario di Crea

Abbiamo deciso di trascorrere una domenica di Pasqua diversa. Approfittando dell’unica giornata di sole del weekend, invece di mettere le gambe sotto il tavolo per il consueto pranzo tradizionale, ci siamo caricati lo zaino in spalla e con il cane Siria abbiamo raggiunto il Monferrato per un trekking di circa 3 ore. Mancavamo da diverso tempo, l’ultima volta per salutare un amico in partenza per l’Oriente.

È sempre piacevole tornare da queste parti, le colline basse solcate dalle vigne, i campi rettangolari, infondono al paesaggio un’atmosfera di serenità, alcuni scorci sono cartoline impressioniste. I borghi storici stanno tutti in alto sulla cima delle colline, in basso si trovano soltanto gli abitati di recente costruzione. Basta salire e il panorama si apre immenso, lo sguardo spazia libero sino ad incontrare la catena della Alpi.

Per me ritornare nel Monferrato, al Munfrà, vuol dire immergersi nei ricordi, ritornare indietro nel tempo, nel periodo dell’infanzia spensierata e della prima giovinezza. Mio padre appassionato vignaiuolo mi fece conoscere queste terre. Lo accompagnavo nei suoi giri alla ricerca di memorabili barbera e grignolini. Si pranzava a Moncalvo, uno dei suoi luoghi preferiti, al ristorante Centrale, allora situato nella piazza principale del paese; infine nel pomeriggio si scendeva ad Alba per comprare le barbatelle di vite. C’era sempre una pianta da sostituire e qualche volta una nuova vigna da impiantare.

il cane SiriaDi queste colline sono piene le pagine di Cesare Pavese: “un mondo, fatto di luoghi successivi, chine e piani, seminati di vigne, di campi, di selve”. Lui langhigiano di Santo Stefano Belbo dopo l’8 settembre ’43 si trasferì, sfollato, a Serralunga di Crea a casa della sorella. Vi restò due anni fino alla Liberazione insegnando a Casale sotto il falso nome di Carlo Deambrogio. “Si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere”.

Il percorso                                                                                                        

L’itinerario proposto è un percorso ad anello tra le colline di Serralunga di Crea e Ponzano Monferrato con partenza e ritorno al santuario di Crea. Il cammino non presenta difficoltà, il dislivello è minimo, la lunghezza 10 km.

Si parte dal santuario della Madonna di Crea le cui origini risalgono probabilmente al 350 dopo Cristo. Per santificare il luogo S. Eusebio costruì un Oratorio in onore della Madonna e circa 10 anni dopo lo stesso santo avrebbe portato tre statue dall’Oriente. Di queste statue due si fermarono in Piemonte, una a Crea l’altra ad Oropa. Lo sviluppo di Crea fu favorito dai Signori del Monferrato, alla fine del ‘400 dalla dinastia dei Paleologi, successivamente dalla famiglia dei Gonzaga.

Prima di iniziare il percorso tra le colline vale la pena  di visitare le cappelle della “salita al Calvario” per ammirare le opere dello scultore fiammingo Jean de Wespin detto il Tabachetti e il pittore Guglielmo Caccia detto il Moncalvo. Si sale sino alla cappella del Paradiso, l’unica con accesso a pagamento, per poi ridiscendere alla cappella VIII dove sulla destra troviamo il segnavia bianco-rosso del CAI che ci indica l’imbocco del sentiero.

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Si scende tra il bosco e seguendo i segnavia si raggiungono le prime case della frazione di Forneglio, si prosegue seguendo l’unica via e arrivati alla chiesetta si prende a sinistra la vecchia strada, che in 15 minuti attraverso frutteti, orti e qualche vigna ci porta a Serralunga di Crea.

Il borgo di Serralunga è caratterizzato dai resti della cinta muraria e dalla bella chiesa di San Sebastiano sulla cui facciata due meridiane curiosamente indicano l’ora, a sinistra l’hora Italica a destra l’ora di Francia. Si segue percorrendola tutta Via Roma e giunti alla fine del paese si sale lungo via Cascinotto dove ritroviamo i segnavia bianco-rossi del Cai. Lo sterrato ci conduce brevemente lungo un tratto boscoso, da qui si raggiunge il Bric (collina) Castelvelli alt. 417 m.

Chiesa di San Sebastiano, Serralunga di CreaIl sentiero gira tutto intorno alla collina, si cammina in un bel bosco di castagni e querce con numerosi cespugli di pungitopo e biancospino sino a sbucare in un largo prato erboso, che davanti a noi  offre una bella veduta del Sacro Monte di Crea. Tenendo la destra si segue il margine del prato per poi riprendere lo sterrato percorrendolo in leggera salita e poi ridiscendere tra le vigne. Siamo tra le prime cascine, di fronte vediamo la caratteristica torre del castello di Ponzano.

boschi e prati tra serralunga e ponzanoContinuando la discesa arriviamo in breve alla Cascina Zenevrea, la bella facciata e il parco ci fanno pensare ad una villa padronale, ci fermiamo per una breve sosta prima di riprendere il cammino che ci riporta al Santuario di Crea, quest’ultimo tratto purtroppo su strada asfaltata.

Terminiamo il nostro racconto con un brano tratto da La casa in collina di Cesare Pavese: “è bello girare la collina insieme al cane: mentre si cammina, lui fiuta e riconosce per noi le radici, le tane, le forre, le vite nascoste, e moltiplica in noi il piacere delle scoperte”.





Marzo ’43, la spallata operaia al fascismo.

1 04 2013

1943-ScioperoNel mese di marzo di settant’anni fa, nell’Italia sconvolta dalla guerra, decine di fabbriche del nord, tra cui quelle più importanti per la produzione bellica, si fermarono.

di Claudio Dellavalle

Nel mese di marzo di settant’anni fa nell’Italia sconvolta dalla guerra si produsse un fatto inaspettato, che rappresentò la prima vera crepa della dittatura fascista e l’inizio del lungo e drammatico percorso di riconquista della democrazia e della libertà. Decine di fabbriche del nord, tra cui quelle più importanti per la produzione bellica, si fermarono.

La protesta operaia prese avvio il 5 marzo a Torino, si allargò nei giorni successivi in città e nei centri vicini, passò nelle fabbriche di altre aree piemontesi; dopo la metà di marzo si estese alle fabbriche di Milano, di Sesto S. Giovanni e del circondario milanese, ad altre province lombarde, toccò alcune fabbriche in Emilia e arrivò fino a Porto Marghera, esaurendosi alla metà di aprile. In quaranta giorni più di 200mila operai, secondo le valutazioni fasciste, avevano incrociato le braccia nonostante le minacce, gli arresti e il silenzio stampa imposto dal regime.

Lo sciopero ebbe una notevole risonanza anche sul piano internazionale. In effetti si configurava come un atto di ribellione, un atto politico, perché per la legge fascista non solo l’interruzione del lavoro era illegale e dunque vietata e punita, ma in tempo di guerra era considerata un atto eversivo, un tradimento della nazione fascista in armi.

Che cosa aveva portato migliaia di operai e operaie ad una prova così rischiosa e piena di incognite? Il terzo anno di guerra aveva impietosamente rivelato i limiti dell’Italia coinvolta in uno scontro insostenibile. Per la verità già dopo il primo anno di guerra l’Italia fascista si era rivelata per quello che era: un paese dallo sviluppo industriale limitato, condotto da una scelta politica irresponsabile a misurarsi in un’impresa superiore alle sue forze. Il regime, anziché prendere atto dell’inferiorità presto evidente, aveva moltiplicato le occasioni di coinvolgimento fino all’ultima disastrosa avventura a fianco di Hitler nella guerra all’Unione sovietica di Stalin.

La distanza tra la visione eroica della nazione in guerra offerta dal fascismo e la dura realtà delle sconfitte si era fatta troppo grande per essere colmata dalla propaganda. Inoltre dall’autunno 1942 la guerra, fino a quel punto lontana, irrompe nella vita degli italiani sottoposti alla minaccia continua dei bombardamenti alleati e al rischio delle distruzioni e della morte. Ne deriva una condizione di insicurezza e precarietà che sconvolge le relazioni della vita quotidiana: centinaia di migliaia di persone, di ogni ceto sociale, con lo sfollamento dai centri urbani cercano di sottrarsi ad una minaccia che può colpire in ogni momento e rispetto alla quale le difese preparate dal regime si sono rivelate inconsistenti.

In questo quadro in rapido deterioramento e privo di sbocchi si colloca la specifica condizione di migliaia di operai e operaie. Mentre le fabbriche sono diventate obiettivi di guerra, le loro condizioni vita e di lavoro si sono deteriorate: da un lato orari prolungati con ritmi stressanti, dall’altro le riduzioni delle razioni alimentari e l’aumento dei prezzi mentre i salari sono bloccati. Il ricorso al mercato nero per un verso diventa una necessità ma per un altro resta un miraggio perché i prezzi rendono inavvicinabili gran parte dei beni: anche cibi popolari come pane e pasta si riducono in quantità e peggiorano in qualità.

Le famiglie operaie che non possono sfollare sono costrette a una vita sospesa tra la minaccia che viene dal cielo e le difficoltà della vita in città. Chi invece ha sfollato la famiglia in campagna deve sottoporsi al disagio di trasporti sconvolti dalle incursioni aeree, e dagli orari incerti. Le condizioni interne ed esterne alla fabbrica arrivano presto ad un punto di rottura proprio in quello che il regime considerava la colonna portante del “fronte interno”.

In effetti il sistema industriale nel corso dei primi due anni di guerra era cresciuto assorbendo manodopera. Accanto agli operai specializzati era lievitato il numero degli occupati nelle produzioni standardizzate dell’industria bellica: operai poco qualificati, giovani, donne. Le distanze contrattuali tra questi vari settori del mondo del lavoro erano notevoli, ma dal 1942 l’inflazione e la scarsità di beni avevano attenuato rapidamente le differenze tra categoria e categoria. Diventava urgente trovare il modo di difendere le esigenze minime di vita di tutti. Anche gli operai di alta qualifica, che avevano un notevole potere contrattuale, diventavano disponibili a rivendicazioni egualitarie perché, come si diceva in fabbrica, “tutti hanno la bocca sotto il naso”.

Il disagio operaio si manifesta per vari segni tra la fine del 1942 e l’inizio del nuovo anno. Sia il sindacato fascista sia le componenti dell’antifascismo avvertono una situazione nuova nelle fabbriche. L’antifascismo ha subito fra gli anni trenta e l’inizio della guerra pesanti colpi dalla repressione della polizia politica fascista. Nelle fabbriche solo i comunisti hanno mantenuto una qualche debole presenza. Ma le difficoltà della guerra aprono nuovi spazi di intervento.

Dall’estate 1941 Umberto Massola, su mandato della direzione del Pci, riesce a entrare in Italia e a ritessere la rete dei collegamenti tra i militanti soprattutto nelle fabbriche di Torino, Milano e Genova. Questo “velo” organizzativo riesce a produrre e a far circolare clandestinamente la stampa di partito, che batte sui temi della guerra ormai persa e delle condizioni di vita e di lavoro degli operai.

Alla fine del 1942 e nei primi mesi del 1943 si verificano in diverse fabbriche alcune proteste spontanee di breve durata. Sono i segni di quello che è stato definito l’antifascismo “esistenziale”, frutto delle difficoltà di vita dei ceti popolari: in fabbrica esso trova le condizioni per incontrarsi con l’antifascismo “storico” di militanti motivati da scelte ideologiche e politiche.

Le proteste spontanee spingono Massola e il gruppo torinese a lui collegato a tentare un’iniziativa di protesta basata su rivendicazioni comuni: 192 ore di salario (erano state promesse agli sfollati e rivendicate per tutti), e un’indennità di guerra. Una protesta dunque di tipo economico, ma che avrebbe assunto, se estesa a più fabbriche, un significato politico, come atto ostile al regime e quindi avrebbe provocato reazioni repressive.

Per ridurre i rischi i militanti di fabbrica suggeriscono di incrociare le braccia sul posto di lavoro evitando manifestazioni esterne che sarebbero state represse con la forza. Si cerca il coinvolgimento della fabbrica più importante sul piano nazionale, la Fiat Mirafiori, che occupava allora 15mila operai e che per la presenza di militanti più esperti poteva fare da esempio trainante per tutti. In realtà le cose andarono in modo diverso: un primo tentativo fallisce e viene ripetuto venerdì 5 marzo, alle ore 10 all’officina 19 delle ausiliarie di Mirafiori.

La protesta ha breve durata e non si estende alla massa degli operai; lo sciopero riesce invece in modo significativo in due fabbriche di medie dimensioni, dove è forte la presenza di operai specializzati. Lunedì 8 marzo scioperano otto fabbriche; il giorno seguente altre ne seguono l’esempio e finalmente dal giorno 11 tutte le maggiori aziende torinesi, compresa Mirafiori, si fermano. Le forme e la durata della protesta sono molto diverse a seconda delle reazioni che le direzioni aziendali, il sindacato, il partito fascista o l’apparato di polizia mettono in atto. Per cui si va da interruzioni brevi, a volte ripetute, a blocchi prolungati dell’attività secondo una logica difficile da individuare: in alcune situazioni le indicazioni dei militanti comunisti sono determinanti; in altre la protesta procede secondo spinte del tutto autonome. L’apporto dei comunisti risulta però decisivo nel far circolare le notizie sullo sciopero e dare un minimo di coordinamento alle richieste.

Così dopo la metà di marzo lo sciopero si estende da Torino e dal Piemonte a Milano e in Lombardia. L’Unità del 15 marzo, diffusa nelle fabbriche milanesi, riporta la cronaca degli scioperi di Torino, le rivendicazioni avanzate e l’invito a scioperare. L’effetto imitazione funziona e lo sciopero anche qui si estende, malgrado sindacato e partito fascista, direzioni aziendali e apparato repressivo siano informati degli sviluppi della protesta. Dove le comunicazioni con i comunisti delle fabbriche non funzionano per difficoltà interne, come avviene a Genova, la protesta non decolla. Nell’insieme gli scioperi possono essere descritti come un’onda anomala, imprevedibile, con comportamenti operai differenti da situazione a situazione: le strutture del regime sono disorientate, incerte tra repressione e qualche concessione.

Un bilancio quantitativo degli scioperi non è facile, tuttavia la cifra di 200mila scioperanti indicata dal sindacato fascista è un riferimento accettabile. Una minoranza, come dirà il Duce di fronte al direttorio del partito fascista per sminuire la portata degli scioperi, e tuttavia una minoranza che coinvolge quasi tutte le maggiori fabbriche italiane impegnate nella produzione bellica. D’altra parte la profonda irritazione di Mussolini nei confronti del sindacato, del partito, delle strutture repressive, cioè di tutto l’apparato del regime rivelatosi inadeguato rispetto alla novità degli scioperi, stava a significare che le agitazioni operaie avevano colpito nel segno.

A complicare le cose c’era il fatto che in molte realtà anche operai considerati filofascisti o iscritti al fascio avevano partecipato alla protesta. Ulteriore elemento, per altro sottovalutato, era stata la presenza massiccia nelle proteste di molte donne, in alcune situazioni le più determinate nello scontro con le direzioni e i sindacati fascisti. Molte di esse vengono denunciate. Dunque la protesta operaia rese palese ciò che molti pensavano ma non osavano dire, e cioè che la crisi da militare si stava trasformando in crisi sociale. Da qui il carattere politico degli scioperi del marzo 1943, che da questo punto di vista assumono una valenza cruciale, segnando un punto di non ritorno nella parabola discendente del fascismo.

Questo dato è ovviamente sottolineato dai comunisti, che hanno lavorato per avviare la protesta, accompagnarla e diffonderla. Ma vale anche per le altre componenti dell’antifascismo politico, stimolate a mettersi in gioco. D’ora in poi i comunisti, per comune riconoscimento, potranno legittimamente assumere un ruolo primario di rappresentanza delle forze del lavoro e questo susciterà l’emulazione delle altre componenti. Già nel corso degli scioperi, ad esempio, è significativo lo sforzo compiuto dagli azionisti torinesi nel dare rilievo alle agitazioni, e prezioso si rivelerà il loro apporto per far conoscere sul piano internazionale la protesta degli operai italiani, che susciterà attenzioni preoccupate anche nei circoli conservatori e vicini alla monarchia.

D’altra parte la cifra prevalente delle agitazioni non è quella di una sola componente politica ma di un soggetto sociale aperto alle proposte della politica. Più in generale, nel considerare l’insieme della prova sostenuta dagli operai nel marzo 1943, si può affermare che proprio l’intreccio di azione politica e di iniziativa spontanea che aveva alimentato gli scioperi costituì l’avvio di una fase nuova nella storia del paese. E in essa il manifestarsi di un protagonismo del mondo del lavoro destinato a durare in contesti completamente diversi.

Nei due difficilissimi anni che seguirono l’iniziativa operaia avrà modo di manifestarsi con una intensità ed efficacia di gran lunga superiore all’apporto di altre componenti sociali. Da questo punto di vista gli scioperi del marzo 1943 possono essere considerati il primo passo per una nuova Italia, dove le forze del lavoro avranno piena legittimazione e un ruolo centrale nel percorso di avvicinamento alla scelta democratica.

* Presidente Istituto piemontese per la storia della Resistenza

tratto dal sito www.rassegna.it

 





8 Marzo 2013 – Rosa Luxemburg (di Rina Gagliardi)

8 03 2013

rosa luxemburg

«Un’ebrea polacca/ che combatté in difesa dei lavoratori tedeschi/ uccisa/ dagli oppressori tedeschi».

Questi versi didattici, scritti da Bertolt Brecht nel 1948, tracciano il profilo essenziale di Rosa Luxemburg: e quella morte «eroica», consumata nella rivoluzione tedesca del 1919, che ne ha consegnata la figura, ma soprattutto la sconfitta, alla storia del movimento operaio.

In questa storia Rosa compare, scompare, ritorna, senza alcun criterio rigoroso, a ritmi rapsodici. Nei primi anni ’20, il suo mito, la «Rosa rossa», è nitidissimo, e ottiene il rispetto di Lenin, che la definisce «un’aquila». Con la normalizzazione staliniana, cade nell’oblìo, sepolta dalle accuse di spontaneismo : e il «luxemburghismo» (un «ismo» tra i meno naturali, per un personaggio che combattè tutta la vita contro il dogmatismo e il dottrinarismo) acquistò la cupa dignità di un’eresia. Negli anni successivi, gli scritti ormai quasi clandestini di Rosa Luxemburg interessano piccoli gruppi e microesperienze «revisioniste» : come quella francese di “Socialisme ou Barbarie”. Fu il ’68 europeo (ma non solo) a riscoprire la memoria teorica di Rosa Luxemburg, la piccola «ebrea polacca» che esaltava i movimenti delle masse, e collocava la libertà, e la pietà, tra i valori fondativi della rivoluzione.

Rosa Luxemburg nasce a Zamosc, in Polonia, il 5 marzo 1871, in una famiglia relativamente aperta (liberal, diremmo oggi). Studia, con risultati brillanti, nel liceo femminile di Varsavia, dove entra in contatto con i circoli giovanili antirussi e il Proletariat, il partito socialista polacco, col quale collaborerà attivamente. Nel 1884 — a tredici anni — scrive un poemetto satirico contro il kaiser Guglielmo I, in visita nella capitale polacca: un primo atto di «indisciplina», che le viene perdonato a stento. Pochi anni dopo, nel 1890, si trasferisce a Zurigo, per studiare filosofia (ma anche scienze naturali e matematica): in questa capitale dell’emigrazione intellettuale e politica, maturano amicizie importanti (Plechanov, Zasulic, Warski) e il grande amore con un giovane ebreo lituano, Leo Jogisches.

La Luxemburg concentra il suo lavoro di questi anni alla questione polacca: fonda, nel 1893, la Sdkp, il partito socialdemocratico della Polonia, lavora alla rivista “Sprawa Robotncza” (Causa operaia), partecipa alle riunioni della II Internazionale. Soprattutto, si batte con forza contro la causa — fatta propria anche da Federico Engels — dell’indipendenza nazionale polacca: solo l’unità di tutte le classi subalterne soggette al dominio zarista, sostiene, può liberare gli operai polacchi, mentre l’ideologia nazionalista è organicamente «inquinata», e compromissoria. Sosterrà questa posizione per tutta la sua vita, anche in una bruciante polemica con Lenin e il suo Diritto delle nazioni all’autodeterminazione. In coerenza, del resto, con il rifiuto di ogni specificità (ebraica, femminile), da lei vissuto come una secca riduzione di orizzonti politici e ideali.

Un forte tratto «universalistico», e cosmopolita, del resto, accompagna la cultura marxiana di Rosa Luxemburg — che è cultura solida, nient’affatto ideologica, sostenuta da severi studi strutturali, dal gusto dell’indagine sociale, da una curiosità pressoché inesauribile. In quasi trent’anni di lavoro, produce perciò una sola opera organica — L’accumulazione del capitale, sul quale gravò da subito l’accusa di catastrofismo economico — e una miriade di saggi e articoli (la polemica contro

il riformismo di Bernstein, i conflitti con Lenin sulla concezione del partito e del Massenbewegung, il movimento di massa contropposto alla visione ultracentralistica del leader russo-giacobino, le analisi della rivoluzione bolscevica, le battaglie sul suffragio universale), che definiscono un pensiero politico ricco e coerente, anche se scarsamente sistematico. L’intellettuale Rosa Luxemburg, insieme, coltiva le sue passioni per le scienze — la botanica e la zoologia, le opere di Goethe e i grandi romanzieri russi, i lieder di Hugo Wolf, i quadri del Tiziano.

E’ a Berlino, dove si stabilisce nel 1898 e diventa cittadina tedesca grazie a un matrimonio bianco, che Rosa vive la sua maturità politica e intellettuale. Nella capitale della Germania, che è anche la capitale della socialdemocrazia, si lega di intensa amicizia a Karl e Luise Kautsky: quando, attorno al 1910, la rottura politica tra Rosa e il teorico della “Die neue Zeit” si farà insanabile, l’affetto si trasformerà in un odio selvaggio.

C’era totale unità di «personale e politico», in Rosa Luxemburg, una passione per la vita che — sono parole sue — «non ammetteva meschinità», non tollerava «nessuna bassezza». C’era anche un riserbo di sé quasi assoluto, una ricchezza che non si lasciava né conoscere davvero né penetrare, e che viveva come colpa, sofferenza, tensione, ogni momento di abbandono. E c’era soprattutto una ferrea istanza etica, la volontà che si adegua, senza mai cercare compromessi, alle indicazioni della ragione: quando nel 1919, scoppiano a Berlino i moti spartachisti, Rosa Luxemburg, che pure ne coglie lucidamente l’immaturità, resta a guidarli, sul campo. Non è un gesto estremo di sacrificio: è l’unica scelta possibile di un’esistenza che ha fatto della rivoluzione — dei reali processi rivoluzionari — l’unica meta per cui un’esistenza può spendersi bene. «Sono destinata, lo so, a morire sulle barricate… Ma nell’intimo appartengo più alle cinciallegre che non ai compagni». Bisogna, bruciare «come una candela, dalle due parti», dirà un’altra volta: solo dentro la storia, si esalta anche quella parte profonda di sé che vorrebbe fuggire, verso orizzonti pacificati e distaccati.

Ma in che cosa consiste, alla fine, la fascinazione luxemburghiana che colpisce quasi tutti coloro che si accostano a questa grande rivoluzionaria sconfitta? C’è la modernità del suo pensiero politico, certo: quella notwendigkeit (necessità) della rivoluzione che a torto è stata letta in chiave deterministica o meccanicistica, e che è, al contrario, una compiuta filosofia della contraddizione, e della non rassegnazione all’esistente. Ma c’è la speciale, difficile, forse irripetibile interezza del suo personaggio. «Bisogna abbattere un mondo, ma calpestare un verme per arbitrio è un delitto imperdonabile», scriverà Rosa nei giorni di fuoco della rivoluzione bolscevica, negli ultimi giorni della sua vita. A cui volle apporre come motto Ich war, ich bin, ich werde sein (Io ero, io sono, io sarò).

 

“il manifesto”, 18 maggio 1986





Cartolina dall’Oriente

28 02 2013

Beilun 2Ningbo, Cina: 26.02.2013 ore 09:19 del mattino.

Mi reco in ufficio ed accendo il pc già sapendo quel che troverò. Nonostante
questa profonda consapevolezza resto per un’attimo sgomento prima di andare a
farmi un caffè forte e nero, anzi, due.
In ufficio c’è uno stanzino dove andiamo a fumare ed in questo stanzino una
finestra si affaccia sull’esterno della fabbrica.
Posso vedere la grande area industriale che si stende ai miei piedi le cui
strade alberate disegnano quartieri fatti di capannoni e dormitori.
Questa è la vera Cina contemporanea. Quella in cui milioni di persone vivono,
in luoghi come quello che sto osservando, ora dedicando la propria esistenza a
produrre beni che il resto del mondo consumerà e che anche loro stanno
iniziando a consumare. Non la Cina dei grattaceli luccicanti di Pudong o quella
della Grande Muraglia o degli Hu Tong, non quella delle risaie a terrazze o
delle praterie mongole.
Perchè la vera natura di una società si può trovare dove essa sta costruendo
il suo futuro, dove il brulicare della vita delle persone rende l’aria
elettrica.
Questo vizio di voler vedere a tutti i costi l’essenza delle cose nel passato
è il sintomo della decadenza della nostra società che ormai vede grandezza
solamente dietro di se e si rifiuta di costruire un futuro all’altezza del
proprio passato. Anzi, peggio, si rifiuta prima ancora di pensarlo un futuro.
Qui invece la voglia di futuro, magari non perfetto , magari non ottimale la
senti sulla pelle e la vedi nel riflesso degli occhi delle persone quando
guardano lontano, oltre l’orizzonte delle loro attuali possibilità.
La sigaretta si consuma velocemente mentre un’omino, all’interno di un grande
orto salvato dalla cementificazione, trasporta due secchi di acqua a tracolla
di un bastone di legno. Anch’esso partecipa al futuro del suo popolo pur
perpetrando un lavoro vecchio di millenni. Lo sta facendo ora, in mezzo ai
capannoni dove le scintille delle mole disegnano lame di luce belle come fuochi
artificiali e i secchi pieni di acqua sono latte di vernice vuote e non anfore
di terracotta. Ma non preoccupatevi, l’acqua la contengono comunque.
Questo omino, penso, saprà almeno che i leaders del suo paese stanno
cambiando?
Una nuova classe dirigente sta per sostituire quella vecchia in Cina.
Discontinuità con il passato ma continuità nella volontà di programmare il
futuro. Perchè qui, terribile per noi malati di democrazia, tutto viene deciso
prima, tutto viene programmato nei minimi dettagli. E poi anche realizzato per
davvero. Senza guardarsi alle spalle.
L’omino nel campo non ha mai votato nella sua vita e forse mai lo potrà fare.
Altri, senza il suo giudizio decidono anche del suo futuro.
In Italia invece milioni di persone si sono liberamente espresse facendo la
loro scelta.
Liberamente hanno deciso di rimandare ancora per un po’ il loro, il nostro
futuro.
La sigaretta è finita, rimane solo la cenere che si libra nell’aria fresca
verso il grande orto rinchiuso fra le fabbriche.
Anche il mio paese forse è finito e ne resta solo la cenere.

A.





Autodifesa di un rivoluzionario

17 02 2013

louis blanqui

Louis-Auguste Blanqui nacque a Nizza nel 1805 da famiglia benestante. Fu uno degli esponenti di spicco del socialismo utopistico, a questa causa dedicò la sua intera esistenza. Marx lo riteneva il più autorevole dirigente operaio del XIX secolo. Passò gran parte della sua vita in carcere, ben 33 anni. Nel 1832 arrestato per complotto contro la sicurezza dello Stato pronuncia davanti alla Corte d’Assise il suo primo grande discorso pubblico. A distanza di oltre 180 anni può stupire l’attualità di questo testo. Tratto da “Autodifesa di un rivoluzionario” pubblicato da manifestolibri.

Signori giurati,

io sono accusato d’aver detto a trenta milioni di francesi, proletari come me, che avevano diritto di vivere. Se si tratta di un delitto, mi sembra che, almeno, non dovrei risponderne se non a uomini che non fossero insieme giudici e parti in causa.

Ora, signori, notate bene che il pubblico ministero non s’è affatto rivolto al vostro spirito di equità e alla vostra ragione, ma alle vostre passioni e ai vostri interessi; non invoca il vostro rigore riferendosi a un atto contrario alla morale e alle leggi: non vuole che scatenare la vostra vendetta contro ciò ch’egli descrive come una minaccia per la vostra esistenza e le vostre proprietà. Non mi trovo dunque dinanzi a giudici, ma a nemici: sarebbe dunque del tutto inutile difendermi. E anche sono rassegnato a ogni pena che potrà colpirmi, ma tuttavia protesto con energia contro questa sostituzione della violenza alla giustizia e, per l’avvenire, m’impegno di cercare di restituire forza al diritto.

Nondimeno, se è mio dovere di proletario, privato di tutti i suoi diritti civili, di respingere quale illegittima la competenza di un tribunale, dove non siedono che dei privilegiati, che non sono affatto miei pari, io son convinto che il vostro spirito sia tanto elevato da svolgere dignitosamente il ruolo che l’onore vi impone in una circostanza, in cui in un modo o nell’altro vi si immolano avversari disarmati. Per ciò che ci riguarda, seguiamo una via già prestabilita: soltanto il ruolo di accusatore conviene agli oppressi.

Infatti, non si può pensare che individui, investiti con sorpresa e con frode del potere di un giorno, a loro piacere saranno in grado di trascinare i patrioti davanti alla loro giustizia e, mostrandoci la spada, di costringerci a invocare misericordia per il nostro patriottismo. Non crediate che noi veniamo qui per giustificare i delitti di cui ci incolpate! Anzi siamo onorati dell’imputazione e, da questo banco stesso di criminali, dove ci si deve considerare onorati di sedere oggi, leveremo le nostre accuse contro gli sciagurati che hanno rovinato e disonorato la Francia, in attesa che sia ristabilito l’ordine naturale nelle funzioni per cui sono costruiti i banchi opposti di questa sala, e che accusatori e accusati siano posti nelle loro posizioni reali. Quanto dirò, darà una spiegazione sul perché abbiamo scritto le frasi denunciate dai servitori del re, e perché ne scriveremo ancora.

Il pubblico ministero, per così dire, ha mostrato in prospettiva alla vostra immaginazione una rivolta degli schiavi, allo scopo di eccitare con la paura il vostro odio: «Vedete, – ha detto, – è la guerra dei poveri contro i ricchi: tutti coloro che possiedono hanno interesse a respingere l’invasione. Noi vi presentiamo i vostri nemici: colpiteli prima che essi non divengano più temibili».

Sì, signori, è la guerra tra i ricchi e i poveri: i ricchi l’hanno voluta così: infatti, sono gli aggressori. Soltanto, essi ritengono azione nefasta il fatto che i poveri oppongano resistenza; direbbero volentieri, parlando del popolo: «Questo animale è tanto feroce da difendersi, quando viene attaccato». L’intera filippica del sostituto procuratore generale può essere riassunta in questa frase.

Continuamente si denunciano i proletari quali ladri pronti a gettarsi sulla proprietà: perché? Perché si lamentano di essere schiacciati da imposte a profitto dei privilegiati. Per ciò che riguarda i privilegiati, che vivono con magnificenza del sudore del proletario, costoro sono dei possessori legittimi, minacciati di saccheggio da una plebaglia rapace. Non è la prima volta che i carnefici si danno arie da vittime. Chi sono dunque questi ladri degni di così grandi anatemi e supplizi? Trenta milioni di francesi, che pagano al fisco un miliardo e mezzo, una somma press’a poco uguale a quella dei privilegiati. E i possessori, che la società intera deve proteggere con la sua potenza, sono due o trecentomila oziosi, che divorano tranquillamente i miliardi pagati dai ladri. Mi par proprio che si tratti, in una forma nuova e fra avversari diversi, della guerra dei baroni feudali contro i mercanti, i quali venivano derubati dai primi lungo le grandi arterie di comunicazione.

In effetti, il governo attuale non ha altra base se non questa iniqua divisione dei carichi e dei benefici. La restaurazione l’ha costituito nel 1814, col consenso delle forze estere, allo scopo di arricchire un’infima minoranza colle spoglie della nazione. Centomila borghesi formano quanto viene definito, con amara ironia, l’elemento democratico. Che ne sarà, Dio santo!, degli altri elementi? […]

I meccanismi di questa macchina, collegati in un modo meraviglioso, raggiungono il povero in ogni momento della giornata, lo perseguitano nelle minime necessità della sua umile vita, si associano ad ogni suo più piccolo guadagno, al suo più miserabile godimento. E non è più sufficiente il mucchio d’argento che passa dalle tasche del proletario a quelle del ricco, attraverso gli abissi del fisco; somme ancora più cospicue sono riscosse dai privilegiati direttamente sulle masse, per mezzo delle leggi che reggono le transazioni industriali e commerciali, leggi di cui detti privilegiati posseggono l’esclusiva…

Louis Auguste Blanqui – Autodifesa di un rivoluzionario (manifestolibri)